La solitudine “buona”. Per guardarsi dentro bisogna saper restare soli, almeno per un po’
La capacità di star soli e di ricavare contenuti dal proprio scavo interiore permette di maturare il “sentimento del sé” e ci immunizza dalle contaminazioni fuorvianti.
La costruzione del sé è un processo esperienziale che matura negli anni su diversi piani.
Il punto di partenza è l’Io corporeo. Quest’ambito viene esplorato soprattutto durante la primissima infanzia tra le pareti domestiche o in luoghi protetti e ha come punti di riferimento principalmente i componenti del nucleo familiare.
La crescita dell’individuo si snoda in seguito attraverso la pratica della socialità, nel confronto con gli altri. La scuola, i luoghi di svago e di sport sono gli spazi di incontro privilegiati.
Al centro di questi due percorsi dovrebbe poi esserci un ambito dedicato alla crescita dell’io interiore, quindi all’introspezione e alla spiritualità. Ma quali luoghi sono deputati oggi a questa esplorazione?
Per guardarsi dentro bisogna saper restare soli, almeno per un po’. Di solitudine in realtà pare ce ne sia molta attorno a noi, le pareti domestiche ne sono imbottite, ma che tipo di solitudine è?
Sicuramente si tratta di uno stato interiore di cui abbiamo paura, perché fa da cassa di risonanza a quel vuoto al quale tentiamo costantemente di sottrarci.
Eppure esiste una solitudine “buona”, che dovrebbe fare da involucro alla nostra coscienza, e che potrebbe anche essere capace di restituirci l’antidoto proprio a quel “vuoto” che ci atterrisce.
Sono illuminanti a questo proposito le parole di Carl Gustav Jung nel suo saggio “Ricordi, sogni, riflessioni”, pubblicato negli anni ‘60: “La solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, ma dalla incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti, o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili. (…) Non è necessariamente nemica dell’amicizia, perché nessuno è più sensibile alle relazioni che il solitario, e l’amicizia fiorisce soltanto quando ogni individuo è memore della propria individualità e non si identifica con gli altri”.
La capacità di star soli e di ricavare contenuti dal proprio scavo interiore permette dunque di maturare il “sentimento del sé” e ci immunizza dalle contaminazioni fuorvianti, nonché dalle false immagini della libertà. Ci permette di distinguere la nostra opinione da quella degli altri.
L’autodeterminazione degli individui è un tema più che attuale. Sulla libertà circolano equivoci e aberrazioni, estremamente pericolose in ambito socio-politico e ancora di più in quello educativo. Rinunciando all’introspezione, attribuendo alla solitudine valore negativo e rendendola sempre più vulnerabile alle mistificazioni ambientali, esponiamo i giovani al caos. Non è un caso che tra i riferimenti degli adolescenti ci siano gli “influencer”. “Influenzare” non vuol dire persuadere, ma significa ottenere il consenso con il potere della suggestione, senza aver bisogno di proporre degli argomenti.
Tra l’altro la mancanza di autocoscienza oggi si abbina a uno sbilanciamento delle aspettative. Si è fatto un gran lavoro a smontare le richieste delle famiglie, spesso castranti e proiettive, ma abbiamo provveduto a fortificare i nostri figli rispetto alle pressioni delle aspettative sociali?
Certo, abbiamo demolito quelle che insistevano sul terreno etico, sul conformismo, ma sono rimaste in piedi quelle ideologiche a cui si sono aggiunte, purtroppo, quelle della logica capitalistica.
Già all’inizio del Novecento, lo psicologo William James svelava le dinamiche dell’interazionismo sociale. Secondo questa teoria gli esseri umani reagiscono a ciò che li circonda in base al significato che sono in grado di attribuirgli: poiché il senso delle cose diventa sempre più un “prodotto sociale”, le reazioni individuali tendono a modellarsi su un gioco di rispecchiamento. Il rischio è che quest’ultimo sia bidimensionale, cioè privo del contributo personale, dell’approfondimento cognitivo e intellettuale, e che si traduca in una mera “imitazione”.
Ecco quindi che i nostri giovani diventano facile preda di stereotipi “al contrario”, modelli cioè studiati a tavolino, che si spacciano come immagini di libertà, ma che di fatto destabilizzano e che, compiuto il proprio rapido ciclo vitale, evaporano lasciando dietro di sé soltanto macerie.