Il rientro in ufficio: ma sta bene a tutti? Il fenomeno della "Great resignation": sempre più persone rinunciano al posto fisso
Great resignation è il termine coniato negli Stati Uniti per indicare le dimissioni di massa di chi, dopo aver provato l’esperienza dello smart working durante la pandemia, non vuole più tornare in presenza con le “vecchie” condizioni. Ansia del ritorno: «Vorrei fare un lavoro che non torni a casa con me» si augura in futuro un intervistato. I classici modelli industria-azienda con orari e luoghi fissi sono ora in crisi, complice anche la scelta delle stesse società di riprogrammare i propri bilanci
Qualcosa è cambiato in un mondo del lavoro contraddistinto da piccoli e grandi paradossi, stereotipi divenuti maschere di una categoria umana che nel proprio lavoro ha trovato la principale descrizione di sé stessa. La letteratura italiana ha partorito due dei più longevi personaggi di questo tipo, figli della penna – e della matita – di Paolo Villaggio e Francesco Tullio Altan: il ragionier Fantozzi e l’operaio Cipputi. Di loro non è rimasto che l’inchiostro perché le fabbriche, gli uffici e ogni aspetto della quotidianità sono cambiati radicalmente. E stanno cambiando ancora finché ne parliamo.
Liberi tutti. Gli americani l’hanno ribattezzata great resignation, la grande corsa alle dimissioni che coinvolge i lavoratori al rientro in ufficio dopo un anno e mezzo di lavoro a distanza. Secondo i calcoli di Anthony Klotz, professore alla Texas A&M University e ripresi da Time, le dimissioni sarebbero aumentate rispetto al 2019 con picchi del 15 per cento. A rincarare la dose uno studio condotto da Microsoft secondo cui il 41 per cento della forza lavoro sta pensando di lasciare il proprio posto nel 2021: «Io ci andrei piano sui numeri che vengono dati – spiega Devi Sacchetto, docente di sociologia del lavoro dell’Università di Padova – Negli Stati Uniti c’è un aumento consistente di questo fenomeno ma nei dati forniti da Veneto lavoro sui primi sei mesi del 2021 si nota come siamo tornati ai livelli di dimissioni del 2019. Una tendenza che, in Veneto, è in crescita dal 2016: il lockdown ha bloccato per un anno il vortice in cui eravamo inseriti e ora una serie di persone ha iniziato a ripensare alle proprie esistenze che prima erano assorbite dal lavoro».
A essere coinvolte dal fenomeno sono anche le grandi aziende tecnologiche che, negli anni, hanno coltivato l’immagine d’essere luoghi altamente produttivi ma amichevoli, capaci di alternare alle scrivanie spazi per il relax e lo svago. «Si diventa più consapevoli che tutta quella costruzione di un ambiente di lavoro friendly è fortemente ideologizzata – continua Sacchetto – È evidente che un ambiente del genere è permesso alle grandi aziende in luce dei grandi profitti ma è comunque un contesto molto costruito». Google, Microsoft e Amazon hanno prima rimandato la data del rientro in ufficio seguendo l’andamento della pandemia e ora stanno progressivamente rendendo strutturale la possibilità di lavorare a distanza: «Ci aspettiamo che ci saranno team che continueranno a lavorare principalmente da remoto – ha recentemente dichiarato Andy Jassy, amministratore delegato di Amazon – Altri che lavoreranno in una combinazione di remoto e in ufficio, e altri ancora che decideranno di lavorare solo in ufficio». Goodbye Cipputi. Un paio d’anni fa l’allora segretario dei metalmeccanici Cisl Marco Bentivogli dava alle stampe Fabbrica futuro, un saggio in cui raccontava la transizione dalla decotta Fiat alla nuova Fca come esempio di un nuovo modello d’impresa. Lungo le catene di montaggio alle tute blu si sono spesso affiancati “camici bianchi” indossati da ingegneri e operai altamente qualificati e la tradizionale gerarchia “sabauda”, verticale e quasi militarista, aveva progressivamente assunto tratti di orizzontalità più funzionali a un’industria moderna. Lo stesso cambio radicale affrontato dai Cipputi delle fabbriche lo hanno sperimentato i Fantozzi degli uffici con la pandemia e il ricorso massiccio allo smart working che ha – o avrebbe dovuto, viste le non poche resistenze – spalancato le porte a una nuova organizzazione aziendale. «In Ibm è molto importante il grado di ogni persona – raccontava Luciano De Crescenzo, ingegnere prima di diventare un acclamato scrittore, in una vecchia intervista televisiva – Io sono diventato al massimo direttore di primo livello, e avevo come segno di riconoscimento una caraffa per bere l’acqua e due bicchieri. Il mio capo invece nel suo ufficio, aveva una caraffa e quattro bicchieri. Il capo del mio capo, che era il direttore di tutto il distretto aveva una caraffa e sei bicchieri. Ogni volta che uno entra in un ufficio in Ibm, non guarda mai di fronte, guarda subito a destra per vedere quanti bicchieri ci sono, per sapere con chi ha a che fare. Ora, siccome io non volevo vivere tutta la vita mia per arrivare a “sei bicchieri”, ho preferito andare via».
Quel senso di alienazione vissuto da De Crescenzo e di rifiuto di uniformarsi a una certa logica divenuta anacronistica emerge, pur nelle differenze date dal ruolo e dal periodo storico, nelle conversazioni fatte con i lavoratori alle prese con il rientro in ufficio dopo quasi due anni di lavoro a distanza. Non è facile affrontare certe tematiche, bisogna spesso garantire l’anonimato e la non riconoscibilità dell’azienda coinvolta ma esiste un tratto comune: ciò che pesa è la mancanza di organizzazione, di gestione del tempo impiegato al lavoro.
«Perché devo andare in azienda e trovarmi senza una scrivania libera dove lavorare o, da contro, completamente solo?». Il modello verticista dei “sei bicchieri”, non certo esente da critiche, negli anni aveva sviluppato una rodata organizzazione retta su due pilastri: l’orario di lavoro definito e un luogo fisico dove stare tutti insieme. Ora non è infrequente che la grande azienda si stia rendendo conto che le cattedrali del lavoro impiegatizio spesso rappresentino più un peso per i bilanci che un effettivo investimento, demandando la permanenza in ufficio alle sole riunioni e ai momenti di confronto. La commistione tra famiglia e lavoro negli stessi ambienti porta però il lavoratore a riconsiderare la forma stessa della casa, ricercando uno spazio da adibire a ufficio magari ricorrendo a una stanza della casa degli anziani genitori o a un trasloco. Scavando nel profondo si scoprono piccole e grandi difficoltà: all’alienazione del lavoro domestico fa il paio l’ansia del ritorno in ufficio, l’azienda fornisce il computer per lavorare da remoto ma non prevede una compensazione per l’acquisto di una sedia o una scrivania dove lavorare in sicurezza. «Ne vale ancora la pena?» è la domanda più ricorrente che emerge dalle varie interviste ai lavoratori. Vale la pena rimettersi in gioco con le nuove modalità di lavoro, di rimanere a casa ma anche di tornare in presenza? «Vorrei fare un lavoro che lascia il tempo che trova, che non torni a casa con me».
Una nuova normalità senza cassa e cassieri
Durante la pandemia quasi tutti abbiamo sperimentato la spesa consegnata a domicilio: si tratta forse della minore delle rivoluzioni intervenute negli ultimi tempi in quanto riedizione moderna del vecchio garzone del casoin. Chi ha pranzato al ristorante di Ikea o effettuato acquisti da Decathlon ha potuto sperimentare l’ultima frontiera delle casse automatiche: dotate di telecamere e sensori moderni, riconoscono ogni prodotto direttamente dal vassoio senza bisogno di lettori di codici a barre. Non è però l’apice dell’innovazione: anche in questo Amazon gioca un altro campionato aprendo i negozi Amazon fresh, i negozi di alimentari di prossimità dove basta entrare e riempire la borsa della spesa. La cassa e i cassieri non servono: una foresta di telecamere tiene traccia di ogni acquisto e il conto arriva direttamente sulla carta di credito.
Il burnout dei medici coinvolti nella pandemia
Esaurirsi, letteralmente bruciarsi, è la sindrome psicologica che accompagna molti lavoratori al termine della pandemia. Un caso per tutti lo solleva Mario Balzanelli, presidente Sis 118, sul magazine Fortune: «I medici stanno andando via dal Sistema 118. A Napoli, per esempio, da marzo a oggi sono andati via 27 medici su 85, ma la situazione non è diversa nelle altre regioni del Paese». Le ragioni secondo Balzanelli sono molteplici ma una delle più frequenti riguarda il burnout dovuto alle pesanti condizioni lavorative subìte nei mesi scorsi con turni massacranti e pesanti ricadute sulla vita quotidiana.