Fragilità. Romeo (Gregoriana): “Più che una vaschetta di pasta, i poveri si aspettano qualcuno che li ascolti”
Il povero puzza. A volte è molesto. Quasi sempre fa paura, specie perché sbatte in faccia l’ingiustizia e lacera per un istante la bolla dell’indifferenza. Eppure è proprio il volto del povero quello più simile a Gesù. Lo ha insegnato Madre Teresa di Calcutta nella sua opera e lo ha imparato nelle strade romane Angelo Romeo, docente di Sociologia all’Università Guglielmo Marconi e alla Pontificia Università Gregoriana, che nel libro “Mani tese” (Tau edizioni) ripercorre i primi anni di contatto con chi dalla società è considerato ultimo, ma che lui chiama “amici”, e descrive quelli più recenti dell’associazione Missione solidarietà creata insieme ad altri volontari
Il povero puzza. A volte è molesto. Quasi sempre fa paura, specie perché sbatte in faccia l’ingiustizia e lacera per un istante la bolla dell’indifferenza. Eppure è proprio il volto del povero quello più simile a Gesù. Lo ha insegnato Madre Teresa di Calcutta nella sua opera e lo ha imparato nelle strade romane Angelo Romeo, docente di Sociologia all’Università Guglielmo Marconi e alla Pontificia Università Gregoriana, che nel libro “Mani tese” (Tau edizioni) ripercorre i primi anni di contatto con chi dalla società è considerato ultimo, ma che lui chiama “amici”, e descrive quelli più recenti dell’associazione Missione solidarietà creata insieme ad altri volontari.
La sera, oltre a un pasto o un tè caldo, l’autore porta amicizia, un bene ancora più prezioso per chi è abituato a non avere nulla.
Col tempo, racconta come i poveri delle strade di Roma siano cambiati: sono sempre più giovani, sempre più fragili, costretti a vivere “in un parco giochi a cui non possono accedere”.
La sua associazione è nata tre anni fa ma l’attività in strada è iniziata molto prima quando era uno studente.
Ho cominciato quindici anni fa. Non ero abituato alla povertà in strada. Nel mio paese di origine, Porto Empedocle, non era usuale. La povertà c’era anche in Sicilia, certo, ma era più nascosta.
I primi anni che mi approcciavo al povero avevo anche un po’ di paura. Passo dopo passo, ho cominciato ad averne meno.
Non mi è mai successo nulla. Come dico sempre, chi ha fede non è mai solo.
Perché essere cirenei oggi è molto più complicato che ai tempi di Gesù?
Per noi è più complicato portare la croce come ha dovuto fare Simone di Cirene perché siamo presi da tante cose e il progresso tecnologico invece di ridurre la povertà l’ha fatta crescere.
Oggi i poveri hanno esigenze a cui è impossibile rispondere. Questo rende più complicato il rapportarsi a loro.
Un quarantenne non ti chiede solo il piatto di pasta, ma anche un posto di lavoro. Queste persone sono all’interno di un grande parco giochi a cui non possono accedere. È difficile calarsi nei loro panni perché c’è in giro un benessere esasperante ma non un’equa divisione dei beni. Quando si va fra i poveri, bisogna fare un grande sforzo e avere tanta pazienza. La fede mi ha sempre aiutato a guardare in maniera diversa. I poveri hanno bisogno di tanti Simone di Cirene che facciano un bagno di umiltà, capaci di fare un passo in più per cambiare la giornata.
Più che una vaschetta di pasta, si aspettano dalla società qualcuno che li ascolti.
Senza amore, questi incontri diventerebbero sterili e saremmo solo un supermercato.
I poveri in strada di oggi sono cambiati rispetto a quindici anni fa?
In parte sì.
Oggi è più facile che il povero si mescoli nella società. Sono invisibili, anche ben vestiti.
Ho sempre preferito recarmi nei posti meno frequentati dalle associazioni, come la stazione San Pietro, o scendere le scale degli argini del Tevere. Sono andato incontro alle persone che per vergogna o per pigrizia non salgono mai nella parte superiore della città.
A Roma ci sono molti posti dove trovare da mangiare. Quello che manca è trovare qualcuno con cui parlare?
Con il tempo ho capito che le persone non avevano solo bisogno di mangiare ma di essere ascoltate. Dalle suore di Madre Teresa ho imparato molto all’inizio. Mi hanno trasmesso la capacità di entrare in contatto con il povero.
Nel nostro immaginario pensiamo che siano persone diverse da noi, che conducano una vita diversa.
Si entra nella loro vita in punta di piedi, con molto rispetto.
Nel libro ammette che all’inizio era preso dal desiderio di dare aiuto a tutti ma poi ha riconosciuto come sia impossibile.
Quando ero giovane e iniziavo ad andare in strada volevo risolvere i problemi di tutti. Ma non è fattibile. Non è possibile mettersi in contatto con tutti.
Ogni povertà è singola, ha bisogno di attenzioni particolari.
In strada c’è differenza fra singolare e plurale: il plurale è quando diamo da mangiare, senza guardare negli occhi l’altro. Il singolare invece è quando segui passo per passo quella persona. Credo che l’unico modo per far sì che il non poter aiutare tutti diventi una consuetudine sia concentrare le energie sui singoli casi. Dall’altra parte deve esserci la volontà, lo sforzo a fare un percorso di vita per lasciare la strada. Molte delle persone non ci provano nemmeno ma è il sintomo di qualcosa di più profondo dentro di loro.
C’è solo una donna, una “amica di strada”, di cui parla: Mamy, una ex ostetrica.
Ho raccontato la storia di Mamy perché ha sempre avuto uno spirito materno, fin dalle prime occasioni in cui la incontravo. Le altre donne sono più sfuggenti, non si aprono facilmente. Lei invece è una figura che colpisce tutti. Quando la senti parlare, trasmette un senso di maternità che ti commuove. Per le donne è più difficile vivere in strada. Alcune che ho conosciuto erano terrorizzate. Molte non parlano, hanno ferite difficili da cicatrizzare.
Incontrate mai bambini in strada?
No. Ma incontro molti giovani.
Siamo abituati a pensare al povero come ad un anziano ma l’età si è molto abbassata. Proprio i giovani mi colpiscono di più, potrebbero essere miei studenti all’università.
A volte sono musicisti, finiti in strada per colpa della pandemia. Molti non vogliono andare nei dormitori dove l’età anagrafica è alta. La scorsa settimana per esempio ho incontrato un ragazzo di 18 anni, giovanissimo. È straniero, spaesato, impaurito.
E poi ci sono molti padri separati che non si possono permettere l’affitto.
Scrive che a volte i poveri sono additati come “colpevoli” della propria povertà anche da chi, pur guadagnando poco, cerca a fatica di vivere con dignità.
Sin dai primi anni ho riscontrato una differenza ulteriore fra chi vive in strada e chi pur essendo povero lavora. Anche nella nostra società, vediamo la stessa dinamica: ci sono persone che vivono dignitosamente ma vengono considerate diverse.
I passanti hanno mai criticato l’aiuto che dà insieme agli altri volontari?
No, anzi la cosa bella è quando le persone si fermano a chiederci cosa facciamo o cosa fa la nostra associazione.
Poi su 500 ci può essere una persona che si oppone o critica, ma rispondiamo con il silenzio. Dico sempre a chi mi accompagna che il nostro obiettivo sono i poveri, il rispetto del loro credo o cultura. Ci poniamo come un gruppo di amici che ha contatti periodici con loro.
Elisabetta Gramolini