Autonomia differenziata. Cartabellotta: “Togliere la salute dalla riforma”
Secondo il presidente della Fondazione Gimbe, la politica dovrebbe cambiare il ddl Calderoli se non vuole creare ulteriori diseguaglianze fra i cittadini
Come in Formula 1, il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata, approvato al Senato e ora in discussione alla Camera, potrebbe assegnare alle Regioni economicamente più forti posizioni stabili in prima fila e relegare quelle più deboli nelle retrovie, senza possibilità di fare benzina nei pit stop. Questa è la prospettiva che vede Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, almeno per quanto riguarda l’erogazione delle prestazioni sanitarie per tutti i cittadini. Secondo Cartabellotta, il capitolo salute andrebbe eliminato dalla riforma se non si vogliono creare ulteriori diseguaglianze. In particolare, una delle voci più rilevanti è la mobilità passiva, cioè il fenomeno per il quale i cittadini si spostano dal luogo di residenza per curarsi altrove. In base a un report curato dalla Fondazione, nel periodo fra il 2010 e il 2021 tutte le Regioni del Sud, ad eccezione del Molise, hanno accumulato un saldo negativo pari a 13,2 miliardi di euro, imputabile proprio alla mobilità passiva, di cui hanno beneficiato le tre Regioni che hanno già richiesto le maggiori autonomie (Emilia Romagna, Veneto e Lombardia). Sulla riforma, anche la Cei è intervenuta più volte sollevando perplessità e preoccupazione per la tenuta del sistema Paese e tramite il segretario generale e arcivescovo di Cagliari, mons. Giuseppe Baturi, fatto sapere che presto verrà sviluppata una posizione unitaria sul tema.
Presidente, perché chiede di eliminare la salute dal ddl Calderoli?
Chiediamo di togliere la materia della salute perché esistono evidenze concrete del fatto che questa riforma rappresenterà un affossamento definitivo della sanità del Sud ma anche un peggioramento indiretto dei servizi sanitari delle Regioni del Nord che, in un momento come questo di grande crisi della sostenibilità del Servizio sanitario nazionale, non potrebbero far fronte a un ulteriore incremento della mobilità già oggi molto importante.
Chi difende la riforma comunque assicura che le Regioni oggi più indietro dal punto di vista economico e finanziario saranno tutelate dallo Stato e aiutate nell’erogare le prestazioni.
È una bugia clamorosa.
Le Regioni del Sud, con l’eccezione della Basilicata, sono oggi alle prese con i piani di rientro e nessuna di loro in questo momento può richiedere maggiori autonomie in sanità.
Inoltre partiamo da divari talmente ampi che, se non vengono colmati prima di assegnare le autonomie, avvicinano l’immagine del sistema a un circuito di Formula 1, dove le macchine che stanno davanti hanno le prime posizioni assegnate di default e quelle che stanno indietro non possono nemmeno fermarsi ai box per fare benzina o cambiare le gomme.
È inevitabile che maggiori autonomie per chi sta in testa indebolirà le Regioni che sono indietro e non permetterà loro di recuperare i divari.
Cosa la preoccupa di più di questa riforma?
Abbiamo evidenza della carenza della sanità nel Mezzogiorno specie per quanto riguarda l’area ospedaliera. La leggiamo indirettamente attraverso i dati della mobilità sanitaria: le persone si spostano per eseguire gli interventi chirurgici nelle Regioni del Nord. Quello che poi preoccupa di più dal punto di vista sanitario e socio-sanitario è l’assistenza territoriale, dove non c’è la spia rossa della mobilità, ma di fatto c’è una scarsa offerta dei servizi che condiziona la vita delle persone. Il Sud è molto indietro nell’organizzazione dell’assistenza territoriale ed è un ambito in cui il recupero dei gap è prioritario perché altrimenti sarà molto difficile attuare la riforma prevista dal Pnrr.
Il problema del personale c’è, specie al Sud.
È grave in tutto il Paese. Una delle maggiori autonomie richieste dalle Regioni infatti riguarda proprio la rimozione del tetto di spesa per il personale. Quelle del Mezzogiorno in regime di piano di rientro inevitabilmente hanno dovuto sacrificare l’assunzione di personale e quindi oggi hanno una dotazione più risicata di risorse, in particolare di infermieri.
Abbiamo delle differenze enormi fra le Regioni, per esempio fra il Friuli Venezia Giulia e la Campania, che di fatto dimostrano come sia impossibile erogare un’assistenza sanitaria di qualità con così poco personale infermieristico.
Dal 1° aprile dovrebbero entrare in vigore i nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea) con le relative tariffe. Il loro avvento è atteso da anni ma la sottodimensione delle tariffe in particolare è criticata da più parti, specie dal privato convenzionato. Le Regioni più ricche potranno assicurare di pagare la differenza fra le vecchie e le nuove tariffe pur di mantenere il numero di prestazioni, si rischia così un ulteriore aumento delle diseguaglianze?
Sì, il rischio c’è. I nuovi Lea sono stati introdotti nel gennaio 2017 mentre il decreto tariffe per la specialistica ambulatoriale e la protesica è stato sdoganato solo ad agosto 2023, cioè dopo sei anni e mezzo. Il fatto è che non c’è una capienza finanziaria per la copertura reale di queste prestazioni e, al di là del sottodimensionamento, il problema sarà quando entreranno in vigore le nuove prestazioni nelle Regioni del Sud che in questi anni non hanno potuto erogarle con fondi propri.M. Elisabetta Gramolini