Afghanistan. Rocca (Cri): “Non militarizzare la risposta ma pensare ad un sistema di aiuti”
Parlando della collaborazione con i Ministeri degli Affari esteri e della Difesa per l'accoglienza in Italia delle famiglie e del personale che ha collaborato con il nostro Paese, il presidente della Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa ha evidenziato la necessità di "pensare a dei percorsi dedicati se non vogliamo creare ulteriore emarginazione. Mi auguro che ci sia un approccio inclusivo"
“Non militarizzare soltanto la risposta ma la comunità internazionale pensi davvero ad un sistema di aiuti. Il nostro appello come Cri per l’Afghanistan è coperto solo al 37% e questo vale non solo per noi ma per quasi tutte le organizzazioni umanitarie. Bisogna spostare l’attenzione dalla parte militare a quella degli aiuti e dello sviluppo”:
è quanto affermato dal presidente della Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, Francesco Rocca, durante il suo intervento al Meeting di Rimini, alla tavola rotonda su “Istituzioni internazionali e multilateralismo alla prova in tempo di Covid”. Un intervento nel quale ha fatto riferimento anche alla situazione in Afghanistan. A margine dell’incontro il Sir e il canale italiano della Radio Vaticana hanno intervistato il presidente Rocca.
Presidente, quale sarà il futuro degli afghani accolti in Italia?
Stiamo collaborando con il Ministero degli Esteri e quello della Difesa per l’accoglienza delle famiglie e del personale afghano che ha collaborato con le nostre forze armate. Abbiamo messo a disposizione i nostri centri di accoglienza e il nostro personale sanitario a Fiumicino. La situazione è in divenire. La vicenda afghana ha avuto una accelerazione improvvisa. È ovvio che bisognerà pensare a dei percorsi dedicati se non vogliamo creare ulteriore emarginazione. Mi auguro che ci sia un approccio inclusivo. Noi faremo la nostra parte per accompagnare e sostenere le famiglie che saranno affidate alla responsabilità di Croce Rossa.
Come intendete portare avanti la vostra missione in Afghanistan?
Continuiamo ad operare. Siamo presenti. Il personale espatriato prosegue il proprio lavoro mentre quello locale della Mezzaluna rossa afghana sta lavorando su tutti i presidi territoriali come i tre ospedali, il presidio ortopedico. Ma c’è molta preoccupazione perché la situazione è estremamente volatile.
Qual è la preoccupazione maggiore in questa fase?
È la logistica: va detto che, oltre all’uscita dall’Afghanistan delle forze militari straniere, gli afghani stavano soffrendo una grave siccità con conseguente crisi alimentare in molte zone del Paese. Il nostro personale locale – alcune migliaia di operatori – ci stava lavorando. Continueremo a farlo. I nostri operatori conoscono le comunità da assistere e questo fa la differenza.
Quali sono invece le priorità?
Sono le persone più fragili. Stanno lasciando l’Afghanistan le famiglie che avevano un lavoro, una posizione. Andranno via le persone dell’intellighenzia e resteranno quelle più povere, fragili e vulnerabili soprattutto nelle zone più isolate.
Avete canali aperti con il nuovo regime talebano?
I vertici della Mezzaluna rossa afghana hanno avuto contatti con i talebani e sono stati incoraggiati a proseguire il loro lavoro.
Ci hanno detto che nulla cambia, ma lo vedremo alla prova dei fatti.
Il dialogo con i talebani lo avevamo anche nelle zone da loro controllate prima dell’uscita degli eserciti stranieri. Per noi è importante l’accesso alle persone con difficoltà. Il nostro ruolo è quello di dialogare e vogliamo continuare a farlo. Non è il momento migliore ma non ci tiriamo indietro.
L’aeroporto di Kabul è stato preso d’assalto dagli afghani che cercano di partire. Si parla di morti e feriti…
Non siamo presenti al momento nello scalo. Si tratta di una operazione preminentemente militare. Dell’evacuazione se ne stanno occupando le forze armate.