Rito della Penitenza. La mano che tocca il capo
Rito della Penitenza. Il sacramento è quasi sparito dalla vita dei credenti. Non si sente più il bisogno di mettersi in ginocchio...
Non esiste segno più espressivo del travaglio che la Chiesa cattolica attraversa della disaffezione nei confronti del rito
della Penitenza. Non si tratta di semplice crisi o fatica. Il sacramento è quasi sparito dalla vita dei credenti. Tutto si è sbilanciato verso l’uomo interiore e la relazione è ormai concentrata su Dio, che “so” essere misericordioso, e su di me, che, guardandomi al mio interno, “so” di essere limitato, peccatore. Chi perde la percezione della potenza dei simboli non sente più il bisogno di mettersi in ginocchio veramente, ma così dimentica che il Verbo si è fatto carne. Dio, Padre,
Figlio, Spirito Santo, amore delle persone divine che si espande, entra in relazione con il mondo in modo visibile. Il cristianesimo non può mai fare a meno della mano di un presbitero che tocca il capo di un penitente, mentre celebra la misericordia, e dice: «Dio, Padre di misericordia,/ che ha riconciliato a sé il mondo/ nella morte e risurrezione di suo Figlio...». L’amore increato di Dio, cioè la sua stessa vita, si è reso percepibile in modo corporeo. Direbbe l’apostolo Giovanni: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita...». È il prologo della lettera che si ascolta nei giorni feriali delle settimane successive al Natale del Signore. L’individuo moderno è sempre più anti-simbolico; un freddo calcolatore, amico della ragione e dei propri pensieri e della propria intricata interiorità. Chi è tutto concentrato su questa dimensione psichica, conoscitiva, elaborativa, esaminatrice, misuratrice crede di non aver bisogno di sentire che la mano del presbitero tocca il suo capo. «Il Signore,/ che illumina con la fede i nostri cuori,/ ti dia una vera conoscenza dei tuoi peccati/ e della sua misericordia». Anche solo queste parole, con cui ha inizio il rito della Penitenza, sono un monumento simbolico di forza e di luce. Se sei in ginocchio e ascolti: «Il Signore, che illumina con la fede i nostri cuori», in quell’istante, non nel segreto della tua stanza, l’amore increato del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo si rende carne e tu comprendi che quella “vera conoscenza” non interviene fintanto che non ne sia posto il segno visibile. Quando la donna peccatrice ha cambiato la propria vita, lo ha fatto perché baciava i piedi di Gesù, li bagnava di lacrime e li asciugava con i capelli. Pietro ha dovuto incrociare lo sguardo del Maestro per piangere, al canto del gallo. L’obiezione all’atto rituale interviene perché si preferisce una pacata interiorità della fede, coerente con l’ordinario, e non si vuole più l’eccesso. Ma la misericordia di Dio è un atto sovrabbondante. È straordinario, non ordinario. L’offerta del Signore sull’altare della croce non può essere banalmente “vicina” alla nostra vita. Così l’atto simbolico-rituale: è una continua uscita, una continua ekstasis, un continuo mettere una carica di tritolo sotto ciò che è normale. La carne che è la misericordia, il Verbo incarnato, continua a essere tale nei sacramenti della Chiesa. Quando racconti a un’altra creatura come te il tuo male, mentre ti escono dalle labbra, le parole diventano realtà e le cose si fanno vive di nuovo. Allora trafiggono l’anima. La donna ha baciato i piedi di Gesù, li ha lavati con le proprie lacrime e lui non le ha detto: «Va’ a casa, fa’ l’esame di coscienza e poi mettiti a dire una preghiera». Ha visto l’amore. Agostino commenta l’episodio chiamando la donna “Misera” e lui, Cristo, “Misericordia”. O l’uomo sarà simbolico, o il cristiano sarà simbolico, o non sarà. Dobbiamo porci dinanzi a Cristo Gesù con la verità della nostra carne, sapendo che la sua risposta misericordiosa vuole essere allo stesso modo carne visibile, di cui la liturgia è portatrice. Il presbitero invita il penitente a fare il segno della croce ed è lui che poi dice: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Cioè: sono qui nel nome del Dio in cui credo, nel nome di questa Trinità, amore increato e invisibile, che, in questo momento, mentre segno sul mio corpo la croce, fa, realizza, genera quello che è.
don Gianandrea Di Donna
direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia