Don Sandro Panizzolo tra i ricordi di mons. Morellato, a un anno dalla scomparsa
A un anno dalla scomparsa, mons. Mario Morellato racconta alcune riflessioni, lucide e profonde, condivise con mons. Panizzolo nel corso dei suoi ultimi giorni all'Opsa
Monsignor Sandro Panizzolo ha vissuto all’Opsa gli ultimi quaranta giorni circa, della sua vita e l’ha conclusa qui il 15 agosto 2021. Stimato presbitero diocesano, anche a livello nazionale per i numerosi incarichi assunti, fu uno dei maggiori esperti di pastorale vocazionale e di formazione degli aspiranti candidati al presbiterato. Nel 1999 divenne rettore del Seminario maggiore di Padova che guidò fino al 2009 quando divenne parroco di Monselice. La sua parrocchia lo ricorderà, nel primo anniversario dalla morte, con alcuni appuntamenti a inizio settembre per permettere la partecipazione ai molti che avevano incrociato il suo cammino umano e presbiterale. All'Opsa a inizio luglio dello scorso anno, era arrivato in condizioni di salute irreparabili, ma del tutto lucido: consapevole spiritualmente, psichicamente, intellettualmente, in pienezza di memoria. Di fronte alla morte non si mente. Heidegger direbbe si è più “autentici”. Mons. Mario Morellato lo incontrava quasi ogni giorno. Hanno pregato assieme e fra loro si era creato negli anni un rapporto rispettoso, di vera amicizia culminato nei giorni della sua ultima permanenza all’Opsa. Da questa profonda condivisione mons. Morellato ha raccolto riflessioni importanti.
Il periodo romano (1987-99) dove si è trovato a vivere in posti di responsabilità. In particolare sulla Curia e il Vaticano: «Ammette di aver trovato una situazione tutt’altro che idilliaca e innocente – racconta mons. Morellato – con persone e occasioni talvolta ambigue e guidate spesso da motivi di interesse non nobile. Si disse, addirittura, sorpreso che il papa non si rendesse conto di questi comportamenti di persone anche a lui vicine, che turbano l’ambiente. Mi parlava di questo per esprimere il suo dispiacere, e anche il suo distacco, la sua lontananza da tali comportamenti e situazioni».
Le condizioni della sua salute.
«Una volta gli chiedo quasi brutalmente: “Ma tu, che cosa chiedi, nella tua condizione, al Signore?”. Mi risponde nettamente: “Io voglio guarire, gli domando di guarire. Io non ho rinunciato alla parrocchia. L’arciprete di Monselice sono ancora io!”. Questo atteggiamento di speranza mi ha sempre colpito, perché egli ha avuto sempre anche una precisa consapevolezza della gravità delle sue condizioni. Mi ha detto esplicitamente, una volta, ma senza tremare e senza disperazione: “So di essere un malato terminale, so che non c’è più nulla da fare, non ci sono medicine umane, eppure io chiedo al Signore di guarire”. Don Sandro non ha mai cessato di sperare in un miracolo. Conservava con sé, con fiduciosa tenerezza, una reliquia preziosa di padre Leopoldo, una sua cuffia per la notte. (…) Chiedeva la guarigione non per tornare a star bene, ma perché era appassionato del suo lavoro pastorale.
L'amministrazione del denaro in parrocchia.
«Ho trovato don Sandro piuttosto contrariato dalle direttive emanate dalla Diocesi per non cadere in inganno, pur ammettendone la convenienza in certi casi. Mi parlava del suo contatto quotidiano con la gente, con i tanti casi, delicatissimi, che si presentavano, casi da custodire in segreto, casi che prevedevano una segretezza e una discrezionalità che solo il parroco può misurare e valutare, per non umiliare nessuno e per intervenire con quella tempestività che è necessaria in certe situazioni. Di certe cose è imprudente trattarne pubblicamente! Comprendevo dalle sue espressioni quanto fosse saggio, prudente e discreto, e personalissimo, il suo contatto con i poveri che passavano dalla canonica».