Adozioni internazionali a picco. Urgente rilanciare cultura dell’accoglienza, sostegno e accompagnamento delle famiglie, lavoro in rete
Adozioni internazionali dimezzate negli ultimi cinque anni: 2.211 nel 2015 contro le 4.130 del 2010, mentre l’Italia è rimasto l’unico Paese europeo in cui è un giudice a stabilire l’idoneità degli aspiranti genitori. Procedure lunghe e incerte, costi elevati, mancati rimborsi delle spese sostenute, spauracchio «fallimento». È possibile invertire questo trend? Lo abbiamo chiesto a due associazioni impegnate sul campo. E un segnale positivo arriva dall’Emila Romagna
Dal 2010 a oggi, nel nostro Paese le adozioni internazionali sono crollate del 50 per cento. Secondo la Commissione adozioni internazionali (Cai ), che opera presso la Presidenza del Consiglio dei ministri a garanzia che queste adozioni avvengano nel rispetto della Convenzione de L’Aja (29 maggio 1993), nel 2015 le autorizzazioni rilasciate all’ingresso di minori in Italia sono state 2.211 contro le 4.130 del 2010, “anno d’oro” dopo il quale è iniziato un progressivo e inesorabile declino.
Qualche giorno fa Mario Zevola, presidente del Tribunale dei minori di Milano, ha affermato che il 30% delle coppie che ottiene l’idoneità ad adottare poi “non la utilizza”. Che cosa scoraggia gli aspiranti genitori adottivi? Tempi di attesa troppo lunghi, complessità dell’iter burocratico, costi elevati, timore di fallire? I rimborsi delle spese sostenute per le adozioni sono fermi al 2011 (il 50 per cento è deducibile dal reddito complessivo, purché documentato e certificato dall’ente autorizzato); sono pertanto in attesa di rimborso le coppie che hanno adottato negli anni successivi. Intanto il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, nuova presidente della Cai, ha annunciato 20 milioni di euro – 12,5 provenienti dal fondo per le adozioni internazionali di 15 milioni creato dalla Legge di stabilità; 7,5 da un avanzo degli anni precedenti – per il rimborso di queste spese.
Marco Griffini, presidente di Aibi – Associazione amici dei bambini , uno dei 62 enti autorizzati nel nostro Paese per le procedure di adozione, guarda con cautela ai dati diffusi dalla Cai che definisce «privi di riscontro con i dati dei singoli enti autorizzati e dei Paesi di provenienza dei minori». «Occorre considerare almeno un ulteriore calo del 15 per cento, ossia un dato complessivo inferiore a 2 mila», avverte sottolineando il «malfunzionamento» della Commissione negli ultimi quattro anni, «addirittura paralizzata nell’ultimo biennio». Intanto, prosegue,
«ogni anno 500 coppie si allontanano dall’idea di adottare un minore. In Italia ci sono 5 milioni 430 mila coppie sposate senza figli, ma nel 2014 solo 3.800 ne hanno fatto richiesta».
A giocare contro è una «cultura negativa» che vede le adozioni internazionali «non come possibilità di dare un papà e una mamma ad un bambino abbandonato, ma quasi come un "metodo concezionale"», mentre «l’Italia è l’unico paese europeo nel quale gli aspiranti genitori sono costretti a passare attraverso il giudizio del tribunale per i minorenni per ottenere un’idoneità per la quale sono a volte necessari anche 15 – 20 colloqui di valutazione». Quanto basta a scoraggiare anche chi fosse animato dalle migliori intenzioni.
Di “via crucis” parla pure Alberto Pezzi, responsabile rete adozione dell’associazione Famiglie per l’accoglienza , altro ente autorizzato, secondo il quale «il calo delle adozioni non è pari al calo delle domande» ma è più legato alle «ridotte percentuali di idoneità rilasciate dai tribunali – in Emilia Romagna il Tribunale dei minori respinge il 30 per cento delle richieste inviate dai servizi sociali – e dai tempi di attesa post-idoneità che possono arrivare anche a cinque anni. E’ comprensibile che le famiglie si scoraggino».
E poi lo spauracchio «fallimento adozioni» quantificato al 3 per cento da uno studio condotto in Spagna: «Privo di fondamento – secondo Griffini – a meno che non si definisca fallimento la normale crisi adolescenziale che si verifica all’interno della maggior parte delle famiglie, adottive e non», mentre si può parlare di fallimento solo quando «un bambino viene "restituito" dopo qualche mese all’istituto». Per Pezzi, che non si nasconde le difficoltà oggettive legate alla storia personale dei minori, «spesso vittime di situazioni di abuso non sempre conosciute e debitamente affrontate con la famiglia adottiva», occorre invece una riflessione al riguardo.
Come invertire il trend? Per Griffini «la Cai deve riavviare l’attività diplomatica dei ‘tempi d’oro’, riprendere gli incontri con le delegazioni straniere, rilanciare gli accordi bilaterali. Occorre restituire speranza alle famiglie
altrimenti andrà irrimediabilmente perduto un capitale di solidarietà e credibilità consolidato negli anni, un sistema-Italia apprezzato dalla comunità internazionale che ci ha sempre riconosciuto la capacità di accogliere anche minori in grave difficoltà».Il fondo di 20 milioni è «un segnale positivo; vedremo se all’annuncio seguiranno fatti concreti».
Per Pezzi , ciò che serve è soprattutto
«una sinergia fra tutti i soggetti in campo. L’orizzonte dell’adozione richiede scenari di sussidiarietà verticale e orizzontale».
E un modello “esportabile” in questa direzione è il protocollo d’intesa sottoscritto il 28 giugno a Bologna da Regione Emilia-Romagna, Tribunale per i minorenni, Anci, Ufficio del garante dell’infanzia, Ufficio scolastico e servizi sociali regionali, enti autorizzati alle adozioni internazionali e associazioni di famiglie adottive, tra cui Famiglie per l’accoglienza.
L’adozione internazionale, conclude Pezzi
«ha bisogno di investimenti anzitutto educativi. La gratuità, la forza di accoglienza che attraversa sfide e difficoltà va testimoniata con fatti e situazioni concrete».
Un percorso «che si fa insieme alle famiglie, sul campo, privilegiando e curando gli aspetti motivazionali. Quello che può vivere e superare una famiglia in una rete di famiglie è inimmaginabile. Sono questi i segnali incoraggianti di cui c’è bisogno».